Il tema del bossing, cioè il mobbing esercitato da un superiore, è una delle problematiche più insidiose che un imprenditore può trovarsi ad affrontare all’interno della propria azienda. A differenza dei conflitti tra colleghi, il bossing si manifesta come un abuso di posizione gerarchica: un capo che, attraverso pressioni continue, esclusioni sistematiche, revoca di benefit o assegnazione di incarichi degradanti, mira a spingere il dipendente a dimettersi. Non si tratta solo di cattiva leadership o di gestione rigida del personale, ma di comportamenti che, se ripetuti nel tempo, mettono seriamente a rischio la salute del lavoratore e, di conseguenza, la stessa azienda.

Le conseguenze del bossing, infatti, non si limitano alla persona che lo subisce. L’intero ambiente di lavoro ne risente: i colleghi assistono a dinamiche tossiche, perdono fiducia nei propri superiori e sviluppano un senso diffuso di insicurezza. Questo clima genera un calo di motivazione, un aumento dell’assenteismo e una crescita del turnover, con costi aggiuntivi per selezionare e formare nuovo personale. A lungo andare, l’azienda si ritrova con una produttività ridotta e con un capitale umano demotivato. A tutto ciò si aggiunge il rischio esterno. In un’epoca in cui i dipendenti raccontano facilmente le proprie esperienze sui social, nelle recensioni online o addirittura attraverso i media, un caso di bossing può diventare un boomerang reputazionale, difficile da gestire e spesso più dannoso delle stesse conseguenze economiche di una causa.

E proprio qui entra in gioco la responsabilità giuridica dell’impresa. L’articolo 328 del Codice delle Obbligazioni svizzero impone al datore di lavoro l’obbligo di proteggere la personalità e la salute dei propri dipendenti. Non si tratta di un principio astratto: significa che l’azienda risponde non solo dei propri atti diretti, ma anche di quelli compiuti dai suoi dirigenti e quadri. Se il bossing porta a un licenziamento ingiustificato o a dimissioni forzate, il giudice può condannare l’impresa a risarcire il lavoratore fino a sei mesi di salario. Nei casi più gravi possono aggiungersi danni per la salute, con indennizzi che si traducono in spese rilevanti e in un ulteriore danno d’immagine. Di fronte a questo scenario, la domanda non è se il bossing sia un problema reale, ma come prevenirlo. La prima risposta è culturale: un imprenditore deve promuovere una leadership basata sul rispetto, formare i propri manager a riconoscere i conflitti e a gestirli senza ricorrere a comportamenti persecutori. A questo si aggiunge la necessità di stabilire regole chiare di condotta e di creare canali sicuri attraverso i quali i dipendenti possano segnalare abusi senza paura di ritorsioni. Quando emerge una segnalazione, l’azienda non può permettersi di restare inerte. Serve un’indagine imparziale e rapida, occorre documentare ogni passaggio e, quando possibile, ricorrere alla mediazione. La mediazione, condotta da una figura esterna e imparziale, permette alle parti di comunicare e di trovare soluzioni condivise, evitando escalation che potrebbero sfociare in tribunale. Nei casi più gravi, però, l’impresa deve avere il coraggio di adottare provvedimenti concreti, fino al licenziamento del responsabile. Tutto ciò non è solo un obbligo di legge, ma un investimento strategico. Ignorare il bossing significa esporsi a cause costose, perdere talenti e intaccare la competitività sul mercato. Affrontarlo in modo strutturato, invece, consente di proteggere l’azienda, rafforzarne la reputazione e creare un ambiente di lavoro sano e attrattivo. In definitiva, l’imprenditore che comprende l’importanza di questo tema non solo evita rischi legali, ma dimostra di credere realmente nel valore delle persone, trasformando la prevenzione del bossing in un fattore di crescita e di successo a lungo termine.